L'opinione dell'esperto

"Maturità, quel primo esame che sottolinea le differenze, ma che arriva troppo tardi"

Claudio Mereghetti preside dell'istituto Campanella di Cernusco sul Naviglio

"Maturità, quel primo esame che sottolinea le differenze, ma che arriva troppo tardi"
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Un tempo si sapeva che gli esami non finiscono mai, ma ormai non è più così: oggi cominciano troppo tardi. Apparecchiamo per i bambini delle elementari e i ragazzi delle medie una scuola che coltiva in loro la convinzione che le cose si possono fare in qualsiasi modo, che tra far bene il proprio compito e farlo male o non farlo non ci sia poi tutta quella gran differenza.

Il grande equivoco della scuola italiana

Fino alla terza media non ci sono esami, ma in fondo anche quello di terza media, davanti ai propri docenti, senza più nemmeno un presidente esterno a certificare il buon lavoro degli insegnanti, non è altro che un’ultima interrogazione.

È il grande equivoco della scuola italiana, della pedagogia italiana: che sia impossibile per un bambino o un ragazzo, sentirsi dire di aver fatto male un compito, una verifica, un orale.

L’esperienza di quarant’anni di scuola mi fa dire che gli alunni (anche i più piccoli) sono perfettamente in grado di capire che i voti non sono a loro, ma a quello che hanno realizzato, consegnato, prodotto; ma soprattutto si attendono dal docente una comunicazione che sia veritiera, cioè corrispondente ai fatti. Ed è solo su questi fatti, su questa verità applicata ai fatti, che può cominciare il dialogo educativo tra docente e discente, non stravolgendo la realtà attraverso insensati equilibrismi lessicali.

L'esame di maturità, qualcosa che indica le differenze

Poi arriva l’esame di maturità e con esso la paura dell’ignoto, a volte il panico. Per la prima volta, ogni studente è di fronte a una prova che termina con un numero e che dice le differenze. Qualcosa di sconosciuto ai nostri ragazzi, poiché alla scuola di oggi manca l’idea che i valori individuali esistano ancora, che il merito vada apprezzato, che di una cosa brutta si debba dire (anche a chi l’ha prodotta) che è brutta, appunto, fatta male, da rifare, e non in via di prima evoluzione, o con giudizio sospeso.

So che non troverò molti d’accordo con me, e anzi sento già le aspre critiche di tanti colleghi presidi e di tanti esperti ma mi accontento di sapere che sessant’anni fa qualcuno di me molto più degno e capace così si esprimeva:

“In questo promettente Paese [la Gran Bretagna], lo spirito dell’Io valgo quanto te è ormai diventato molto più che una convinzione generale. Sta già cominciando a infiltrarsi nel sistema educativo. Il principio basilare della nuova educazione è che non si deve assolutamente lasciare che gli stupidi e gli indolenti si sentano inferiori a chi è intelligente e industrioso. Sarebbe antidemocratico.

Queste differenze fra scolari – dal momento che sono ovviamente e palesemente differenze individuali – vanno nascoste. E ciò si può fare a diversi livelli. Nelle università gli esami dovranno essere architettati in modo che quasi tutti gli studenti meritino dei bei voti. Gli esami di ammissione andranno organizzati in modo che tutti, o quasi tutti, i cittadini abbiano accesso alle università, sia che abbiano la capacità (o il desiderio) di giovarsi dell’educazione superiore, o che non l’abbiano.

Nelle scuole, i ragazzi che sono troppo stupidi o pigri per apprendere lingue e matematica e scienze si possono mettere a fare quelle cose che una volta si facevano nel tempo libero. Per esempio, fategli fare torte di terra, e dite che stanno modellando. Ma non si insinui mai, neppure vagamente, alcun dubbio sulla loro inferiorità rispetto a chi lavora.

Qualunque sciocchezza stiano facendo deve avere – credo che gli inglesi abbiano già in uso la frase –parità di considerazione. E non è da escludere un sistema anche più drastico. I ragazzi che meriterebbero di essere promossi si potrebbero trattenere di proposito nelle classi inferiori, altrimenti gli altri subirebbero un trauma – per Belzebù, che parola utilissima! – se venissero lasciati indietro.

E così lo scolaro intelligente resta democraticamente incatenato per tutta la carriera scolastica al suo gruppo di coetanei, e un ragazzo che potrebbe affrontare Eschilo o Dante se ne sta lì seduto ad ascoltare gli sforzi del compagno che tenta di sillabare Il gatto siede sullo zerbino. In una parola, il giorno in cui l’Io valgo quanto te si sarà definitivamente affermato, avremo ragione di sperare in una effettiva abolizione dell’educazione. Spariranno tutti gli incentivi ad imparare e le punizioni per il non imparare. Quei pochi che potrebbero aver voglia di imparare saranno ammoniti: chi credono di essere per pretendere di superare i loro simili? E comunque le insegnanti – dovrei forse dire le infermiere – saranno troppo occupate a rassicurare gli idioti incoraggiandoli con colpetti sulle spalle, per sprecare il tempo a insegnare.

Queste parole sono di C.S. Lewis, l’autore delle Cronache di Narnia, e sono tratte dal “Brindisi di Berlicche” (seguito delle più famose “Lettere di Berlicche”), un romanzo breve nel quale un diavolo apprendista alla scuola di un diavolo esperto impara come portare alla rovina gli esseri umani, ma di fatto si ritrova disoccupato perché appunto la scuola è ridotta a dopo- scuola in nome di una democrazia egualitarista e senza spina dorsale, dove impegno e merito sono esclusi perché relitti del passato.

La maturità, primo e ultimo capitolo della nostra vita

Una pagina profetica nella quale Lewis, ancor prima del ’68, prevede una decadenza delle istituzioni formative in nome del principio, apparentemente innocuo, anzi sacrosanto, dell’«io valgo quanto te». Principio che, se è vero dal punto di vista della dignità umana e dell’essere, non è altrettanto vero dal punto di vista dell’agire e dei risultati.

Ecco, in questo senso, la maturità costituisce una prima volta, la prima volta in cui i ragazzi vengono messi in fila, in un ordine che ovviamente non riguarda la loro straordinaria bellezza personale, unica e irripetibile, ma l’esito di quanto hanno saputo fare e produrre nelle prove scritte e orali.

Un esito fondato sui fatti che può provocare gioia, rabbia, o anche renderci irrequieti, di quella irrequietezza che Jack London definiva “acuta, dolorosa” – ma anche capace di far comprendere, chiaramente, che cosa gli occorresse: la bellezza, la cultura intellettuale e l’amore…”.

La maturità, come ha scritto nel suo saluto agli studenti il direttore dell’USR Luciana Volta, è insieme ultimo e primo capitolo nella nostra vita: ma più apertura che chiusura, più inizio e scoperta. Niente panico allora, ma desiderio di dare il meglio di sé.

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