Dopo l'operazione, "Il vecchietto dove lo metto?": la riabilitazione degli affetti
Il dottor Valter Ferri dell'Ortopedia di Melzo pone l'accento su un tema fondamentale: il rapporto con le famiglie nella gestione del paziente dopo l'intervento
Il primo appuntamento estivo della rubrica Gazzetta in Salute è curato dal direttore dell’Unità operativa di Ortopedia dell’ospedale di Melzo, il dottor Valter Ferri. Focus puntato sul tema della riabilitazione post operatoria negli anziani, non solo un fatto prettamente medico.
La gestione del post operatorio
In queste righe vorrei affrontare la problematiche relative alla gestione del post-operatorio dei pazienti anziani, sottoposti a intervento per la frattura del femore. Focalizzerei per una volta l’attenzione sulle difficoltà che i medici incontrano sempre più spesso nel rapportarsi con i parenti dei pazienti operati
Il momento dell’ingresso in reparto
All’inizio sono tutte rose e fiori, siamo bravissimi perché invece di mandarli in altri ospedali cambiamo le stanze, spostiamo i pazienti e rifacciamo i letti per adeguare gli spazi che ospitavano un uomo ad accogliere una donna e viceversa, per evitare che il paziente sosti troppo a lungo in barella in Pronto soccorso o peggio debba essere trasferito in altre strutture, lontane dall’affetto dei suoi cari. Informiamo sempre i parenti del rischio elevato di interventi del genere in pazienti anziani (mortalità del 7/9% entro 30 giorni; spesso il 50% dopo un anno non sopravvive), ma ci sentiamo rispondere «si figuri dottore, siamo a conoscenza… Faccia del suo meglio... Le siamo grati…».
Li informiamo che siamo un reparto per acuti, cioè cerchiamo di affrontare il problema frattura, ma non siamo una lunga degenza, perché altrimenti se tenessimo i pazienti per settimane non potremmo avere posto per i nuovi casi che si presentano. Anche per questo li si esorta a iniziare a pensare al post operatorio, perché il soggetto non sarà più autosufficiente e dovrà essere aiutato. «Ma certo, ma si figuri» e noi a ripetere: è un paziente, ma soprattutto un parente.
Qui la commedia comincia a virare verso il dramma. Non dicono nulla, ma già si capisce quello che pensano: «Fai il tuo lavoro che poi col cavolo che me lo porto a casa… deve fare la riabilitazione e voi dovete trovargli un posto».
Il momento dell’intervento
Se è possibile viene fatto nelle 24/48 ore, ma spesso i pazienti sono affetti da co-patologie, assumono farmaci anticoagulanti e bisogna attendere per non esporli a rischi eccessivi. Ecco che cominciano le prime crepe con i familiari, le prime avvisaglie.
Tutti i parenti sono laureati alla «Google University», cominciano ad affrontarti a muso duro: «Perché non avete ancora operato? Mi hanno detto che… Un mio amico… Dalla farmacista… hanno detto al bar… Se si aspetta troppo e muore?», sono solo alcune delle rimostranze che sentiamo puntualmente.
Dopo L’intervento
Il chirurgo, informa i pazienti su come è andato l’intervento e chiarisce che ci vogliono pur sempre 24/48 ore per valutare se sopravviverà (la cosiddetta prognosi riservata). E a questo punto il dramma si trasforma in tragedia , con la fatidica domanda: «Ma dopo lo manderete in riabilitazione, vero?». Improvvisamente i pazienti con gravi deficit cognitivi partecipavano ai quiz televisivi e le indovinavano tutte, quelli che son caduti dalla carrozzina e non deambulavano erano degli autentici sportivi... Solo all’idea di doverli portare a casa perché giudicati dal fisiatra non consoni alla riabilitazione si mente spudoratamente e tutto è dovuto: «Io pago le tasse e ho diritto... Voi statali siete pagati da noi e dovete darvi da fare… Io devo lavorare, viene lei a casa mia a curarlo» e via di questo passo.
All’ingresso eravamo angeli, alla dimissione siamo diventati i demoni. Aveva ragione Domenico Modugno nella canzone «Il vecchietto dove lo metto», che diceva : «Ha fatto la valigia e se ne è andato… Perché con i figli e nipoti non ce la fa più... E’ troppo stanco e troppo malandato».
La riabilitazione degli affetti
Purtroppo se la gente capisse che ciò che conta e ciò che viene prima è la riabilitazione degli affetti e non dei muscoli, allora forse gli anziani operati ritornati a casa riprenderebbero a mangiare, desidererebbero tornare a muoversi e non si lascerebbero morire soli e abbandonati in qualche ricovero per la lunga degenza.