Dal libro al cinema: è uscito "Ero in guerra e non lo sapevo", la storia di Torregiani
Il racconto della vita del gioielliere nativo di Melzo, vittima della scia di sangue di uno dei periodi più bui della storia italiana.
Uno sprazzo di vita, una ventina di giorni che hanno portato un uomo all’inferno e poi alla morte. E’ la storia di Pierluigi Torregiani (nativo di Melzo), ma che lui non può più raccontare perché una sparatoria, nel bel mezzo degli Anni di piombo, non gli ha lasciato scampo. Il figlio, invece, Alberto Torregiani, rimasto ferito e costretto in sedia a rotelle dopo l’agguato al padre, ha invece affidato le sue memorie a Edizioni A.Car, casa editrice del clarense Amos Cartabia, che nel 2006 ne ha realizzato un libro diventato oggi una produzione Rai Cinema. Il film è stato proiettato in anteprima all’Odeon di Milano e, mercoledì e giovedì sera (con Alberto Torregiani ospite), al Gemini di Capriolo. Poi, a febbraio, sarà in prima visione Rai.
Dal libro dell’editore clarense al cinema: è uscito "Ero in guerra e non lo sapevo"
"Ero in guerra ma non lo sapevo", racconta la storia di un gioielliere, Pierluigi Torregiani (interpretato dall’attore Francesco Montanaro) nato a Melzo che, nel gennaio del 1979, stava cenando al ristorante con la famiglia, la moglie Elena (Laura Chiatti) e i tre figli adottivi, quando nel locale arrivarono improvvisamente dei malviventi pronti a rapinare i commensali presenti in sala. Episodi, in quei giorni, quasi di routine in una Milano messa a ferro e fuoco dai banditi che, quotidianamente, saccheggiavano negozi e ristoranti. Ma quando Torregiani vide uno dei rapinatori minacciare sua figlia Marisa puntandole contro una pistola, non ci pensò due volte a estrarre l’arma che portava addosso e a gettarsi sull’uomo che morì (probabilmente non per mano di Torregiani). Quello, però, fu l’inizio della fine. Quella dannata sera, per Torregiani e per la sua famiglia, iniziò la discesa agli inferi. Fu definito dai giornali "giustiziere borghese e fascista" e, nel giro di due settimane, entrò nel mirino dei P.A.C. (Proletari Armati per il Comunismo, il cui membro più famoso è Cesare Battisti). Dopo continue rinunce di protezione da parte della polizia e della scorta (anche per poter partecipare alle prime televendite che fruttavano un buon compenso), in nome della libertà di poter continuare a vivere la vita senza impedimenti e, soprattutto, garantire entrate economiche alla famiglia, il 16 febbraio dello stesso anno fu assassinato davanti alla sua gioielleria situata nella periferia nord di Milano, in via Mercantini, nel quartiere della "Bovisa". Per l’omicidio furono arrestati Giuseppe Memeo e Gabriele Grimaldi, come esecutori materiali, e Sebastiano Masala come concorrente.
Il libro alle origini del film
Il film, che vede alla regia Fabio Resinaro ed è prodotto da Luca Barbareschi, dopo l’anteprima nelle sale cinematografiche, sarà mandato in onda su Rai 1 a metà febbraio (e poi, probabilmente, caricato sulla piattaforma Rai Play). "Ero in guerra e non lo sapevo" trae, appunto, ispirazione dal libro autobiografico di Alberto Dabrazzi Torregiani (Dabrazzi è il cognome preadozione, usato per qualche anno per distaccarsi e proteggersi dalla vicenda che ha portato all’omicidio del padre) e Stefano Rabozzi. Nel volume, edito da A.Car, Alberto (nel film interpretato da Alessandro Di Tocco) è il figlio adottivo di Pierluigi uscito da quell'esperienza profondamente segnato nel corpo e nello spirito, e racconta la vicenda di un uomo che si trasforma con spaventosa rapidità in un morituro. A raccontare il tutto è stato proprio l'editore, Amos Cartabia.
Sono davvero contento dell’uscita di questo film. Hanno avuto coraggio. Barbareschi aveva in mente la produzione da tanto tempo, ma come il libro, era sicuramente scomodo e ci sono dunque voluti molti anni affinché diventasse realtà. Non è facile raccontare una storia come questa, soprattutto lasciando fuori la politica e tanti altri fattori, attenendosi solo ai fatti. Eppure, devo dire che ci sono perfettamente riusciti. Il film è un colpo al cuore: nonostante la storia sia ben nota a tutti, viene restituita al pubblico con tanti colpi di scena.
Quello tra Cartabia e Alberto Torregiani fu un incontro di fortuna, ma che ha fatto in modo che venisse messa nero su bianco una delle più tristi vicende legate agli anni di piombo e alla Milano degli anni ‘70.
Quel giovane rimasto gravemente ferito alla spina dorsale è diventato un adulto con tante cose da raccontare. Anche lui, così come tutta la sua famiglia, è finito sotto la lente dei P.A.C. e ha vissuto l’angoscia di quei 25 giorni. Poi, come se non bastasse, il tutto gli è rimasto addosso. Per sempre. Per diversi anni, infatti, ha anche utilizzato il cognome Dabrazzi per proteggersi, ma poi, come nel libro, ha tirato fuori il grande coraggio per raccontare la verità.