Lutto a Liscate

Ha lottato contro il tumore con ironia. Davide ci ha lasciati, non il suo esempio

Davide Ciceri aveva 20 anni. Ancora adolescente era stato colpito da un osteosarcoma. Aveva raccontato la sua esperienza.

Ha lottato contro il tumore con ironia. Davide ci ha lasciati, non il suo esempio
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Un ragazzo pieno di sogni, di energia, di ironia che a tratti sapeva essere quasi dissacrante. Un ragazzo che sin da quando aveva sedici anni si è ritrovato a convivere con un male terribile. Ha lottato contro il tumore, ma ha perso l'ultima battaglia. Il liscatese Davide Ciceri si è spento a 20 anni.

Ha lottato contro il tumore con coraggio e ironia

Aveva sedici anni quando è arrivata la diagnosi: osteosarcoma, un tumore alle ossa che ha aggredito il suo fisico di adolescente.  Un male che gli ha portato via la giovinezza, costringendolo a crescere più velocemente dei suoi coetanei. Ha affrontato l'amputazione di una gamba, senza perdere mai la sua voglia di vivere, giocare e scherzare. Perché uno dei tratti che lo caratterizzavano era l'ironia con cui affrontava la situazione: lo testimoniano le foto da lui realizzate, in cui scherzava sulla perdita della gamba.

Ha scritto un libro

La vita di un malato di tumore non è mai facile, ma diventa ancor più complessa quando si è un giovane pieno di passioni. In particolare per il Motocross, attività che ha continuato a portare avanti anche dopo l'amputazione. In cura all'Istituto nazionale dei Tuomori di Milano, insieme ad altri ragazzi come lui che facevano parte del Progetto Giovani ha partecipato alla stesura del libro "Dal settimo cielo al settimo piano".

"Ci ha lasciato un insegnamento"

Unanime il coro di vicinanza e di affetto nei confronti della famiglia da parte dell'intera comunità di Liscate e di tutti coloro che hanno incrociato Davide nel suo cammino. La bacheca di Facebook del giovane ieri, lunedì 4 maggio 2020, è stata letteralmente invasa da foto, ricordi, pensieri.
Anche il sindaco Lorenzo Fucci  ha voluto salutare il giovane concittadino. Una delle ultima apparizioni pubbliche di Davide era stata fortemente voluta proprio dall'Amministrazione, che lo aveva invitato insieme agli altri ragazzi del Progetto Giovani per presentare il loro libro in occasione dei festeggiamenti per l'inaugurazione del nuovo Auditorium della scuola Etty Hillesum.

Sono felice che l'ultimo ricordo di Davide sia legato a quel momento, felice, pieno di vita, sorridente e determinato a combattere. Mi ricordo che mi aveva raccontato come si fosse stupito del grande affetto dimostratogli dal nostro paese. Quando abbiamo pensato a chi invitare per l'inaugurazione dell'Auditorium, il primo pensiero è andato a lui. Non solo perché lui è stato ed è tutt'ora una risorsa del nostro territorio, ma perché è un ragazzo che ha saputo lasciare un insegnamento vero e profondo in tutte le persone che ha incontrato.

L'intervista

Nel settembre del 2018 avevamo intervistato Davide a seguito della pubblicazione del libro da lui scritto. Di seguito, per chi volesse conoscerlo meglio, l'intervista completa.

Davide, come era la tua vita prima della scoperta della malattia?

«Una vita normale, di un adolescente come tanti altri. Avevo la passione per il motocross e sin da piccolino andavo in moto. Avevo fatto anche delle gare, più che altro per passione».

Poi un giorno è cambiato tutto...

«Sì. Facevo uno stage scolastico in officina e da un po’ di tempo sentivo un dolore sopra il ginocchio destro. All’inizio non ci ho dato molto peso, pensavo fosse una botta presa in moto. Poi il 2 settembre 2016, il giorno del mio compleanno, mi sono alzato e la gamba cedeva. A quel punto sono andato in Pronto soccorso a Melzo e da lì è partito tutto».

Come hai preso la notizia della malattia?

«I controlli sono durati per un po’, e in quel tempo mi sono informato su cosa potessi avere. Quando ho fatto la biopsia che ha certificato il male ero in un reparto oncologico e già immaginavo cosa mi sarebbe stato detto. Certo, la speranza c’era sempre, ma nel frattempo avevo metabolizzato. E’ certamente una cosa che non pensi mai ti possa capitare, ma poi fa tutto il carattere di ciascuno».

In quel momento quanto sono stati importanti famiglia e amici?

«Mi sono stati tutti molto vicini. La famiglia è stata fondamentale e anche per loro è stato un periodo molto impegnativo. Nessuno, anche tra gli amici, mi ha voltato le spalle. Anche per gli altri non deve essere semplice, perché magari c’è sempre qualche difficoltà ad approcciarsi. Però mi sono stati tutti vicino».

Poi è arrivata la notizia che la gamba doveva essere amputata...

«Sì. In principio non doveva essere così. Una sera, però, il dottore mi ha detto che era necessario procedere in questo senso. Non è stato facile, ma ho sempre pensato che loro sono i medici e che sono lì per salvarti la vita. Dunque se dicevano che era necessario andava fatto».

Riesci a mantenere uno spirito molto positivo. Come fai?

«Mi hanno detto subito che più del 50% lo fanno come vivi la malattia e la forza che ci metti. Io ho cercato e cerco di farlo nel modo più sereno possibile».

Poi è arrivata la scrittura. Come è iniziata?

«Dopo il primo intervento le terapie erano lunghe e capitava di stare anche per una settimana in ospedale. Mi annoiavo. Così ho pensato che avevo una storia da raccontare e del materiale. A un certo punto avevo quasi abbandonato l’idea, ma poi grazie al Progetto giovani siamo arrivati a questo risultato. E’ stato fondamentale il supporto del dottor Andrea Ferrari, oncologo responsabile del progetto, di Edoardo Rosati, giornalista medico-scientifico che ha curato il libro e di Paola Gaggiotti, coordinatrice artistica del progetto».

Che esperienza è stata?

«Veramente bella. Mi ha dato modo di “spostare” il pensiero dalla quotidianità quando avevo ripreso le terapie. E’ stato bello e utile concentrarsi su qualcosa».

Il titolo («Dal settimo cielo al settimo piano») richiama il reparto di Pediatria oncologica (al settimo piano dell’Istituto tumori). Come hai vissuto con gli altri ragazzi?

«Si sono creati rapporti molto forti. Sono stati compagni indispensabili nel mio percorso. Esperienze del genere creano legami che durano anche dopo».

Il libro racconta la storia di Leo 299, che sei tu, come mai questa scelta?

«E’ una specie di tutela che viene utilizzata nei confronti dei ragazzi del progetto, per non esporli troppo mediaticamente. Leo è un diminutivo di Leonardo, un nome che mi piace, 299 è la moto».

E ora, come stai?

«Abbastanza bene. Devo fare ancora dei controlli, ma spero che vadano in maniera positiva. Penso di aver già dato abbastanza...».

E per il tuo futuro?

«Diciamo che dopo un anno e mezzo così voglio riposarmi un po’ e non pensare troppo. Mi piacerebbe godermi un po’ questo momento e divertirmi. Per tutto il resto ci sarà tempo».

Anche per la moto?

«Assolutamente sì. E’ un obiettivo».

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