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Confiscati beni per 5 milioni a un imprenditore... mai condannato

La decisione della Cassazione per un imprenditore che si è visto sequestrare proprietà anche a Peschiera Borromeo.

Confiscati beni per 5 milioni a un imprenditore... mai condannato
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Si può giustificare una confisca da cinque milioni di euro senza che il proprietario dei beni sia mai stato condannato? La risposta è «sì» secondo i giudici della Corte di Cassazione, che nelle scorse settimane hanno respinto l’ultimo ricorso presentato dai legali di Mario La Porta, imprenditore 74enne di origini irpine attivo nel settore del movimento terra in provincia di Milano.
Gli ermellini hanno dunque confermato il provvedimento emesso dalla sezione Autonoma Misure di Prevenzione del Tribunale di Milano, eseguito dalla Guardia di Finanza, che ha messo i sigilli a due società, conti correnti, terreni e a 60 immobili siti a Bareggio, Nerviano, Lainate e Peschiera Borromeo.

Maxi confisca... senza condanna

Secondo la Procura milanese, l’imprenditore sarebbe un «evasore seriale» fin dai primi del 2000 perché dedito alla «sistematica evasione di rilevantissime somme di denaro» e a condotte «di dichiarazioni fraudolente, utilizzo di fatture inesistenti, distruzione della contabilità con false denunce di furto o smarrimento, falsificazione di schede-carburante e utilizzo sistematico di prestanome».
Accuse mai confermate da una condanna, visto che tutti i processi a carico di La Porta si sono sempre conclusi con la prescrizione dei reati e in un caso con un’assoluzione per insufficienza di prove.
Per i pm, però, «questa condotta reiterata» dell’imprenditore irpino «aveva certamente sostanziato reati tributari, vista l’elevata quantità di denaro che superava ogni soglia di punibilità, a prescindere dall’esito dei procedimenti chiusi per prescrizione dei reati», visto che il 74enne «aveva accumulato ingenti somme di denaro contante incompatibili con l’assenza di utili delle sue società». Soldi che sarebbero stati reinvestiti in un vasto patrimonio immobiliare dislocato tra Bareggio, Nerviano, Lainate e Peschiera Borromeo, poi ceduto a un’altra società attiva nel movimento terra e con sede a Pogliano Milanese (dichiarata fallita nel 2010), a lui riconducibile. Questa ditta «in sostanza doveva tutelare l’ingente patrimonio accumulato dalle pretese del Fisco, espresse in accertamenti e cartelle esattoriali per diversi milioni di euro».

I rapporti con la ‘Ndrangheta

Vista l’impossibilità di confermare in sede giudiziaria i sospetti di frode fiscale, per chiedere (e ottenere) il provvedimento di sequestro dei beni di La Porta i pm hanno cercato di dimostrare la «pericolosità sociale» dell’imprenditore, evidenziando come «diversi fattori (…) avevano fatto supporre l’esistenza di solidi legami» con «la criminalità organizzata calabrese attiva nel settore del movimento terra: in particolare risultavano contatti con il clan Flachi» che avrebbe esercitato l’attività di recupero crediti per le sue aziende.
Un elemento non di poco conto visto che la cosca, capitanata da don Pepè Flachi, «boss della Comasina» erede di Renato Vallanzasca, è stata una delle più potenti di tutta Milano a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, muovendosi tra le estorsioni ai paninari all’infiltrazione nel business della sicurezza dei locali della movida notturna, passando per il movimento terra e il controllo dei voti alle elezioni regionali. Grazie all’alleanza con gli uomini del boss lecchese Franco Coco Trovato, i Flachi sono stati inoltre protagonisti della sanguinaria guerra di mafia contro i camorristi del clan Batti, che tra il 1990 e il 1993 ha portato all’uccisione di ben 11 persone.

La difesa dell’imprenditore

Contatti che gli avvocati difensori di La Porta hanno fin da subito definito «insussistenti», in quanto l’imprenditore «era stato coinvolto nell’inchiesta» sul clan Flachi «solo per errore, perché la telefonata intercettata» e messa agli atti non era con lui, ma con il fratello Giovanni; mentre il figlio era stato perfino vittima di estorsione da parte del clan. Ciononostante, i giudici della prima sezione penale della Cassazione hanno ritenuto valide le motivazioni della Corte d’Appello di Milano, confermando così il decreto di confisca da 5 milioni emesso nel novembre 2018 dopo un iniziale rinvio degli ermellini dell’anno prima.

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