Testimone dell'orrore

E' una tutsi sopravvissuta al genocidio in Ruanda, vive a Melzo e racconta la sua storia

Honorine Mujyambereè ha visto morire tutta la sua famiglia, e oggi si batte perché la tragedia non venga dimenticata

E' una tutsi sopravvissuta al genocidio in Ruanda, vive a Melzo e racconta la sua storia
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E' sopravvissuta al genocidio dei Tutsi in Ruanda, oggi racconta la sua storia, per riuscire a dare voce alle vittime dell'odio razziale. Honorine Mujyambereè è un'attivista residente a Melzo, e non potrà mai cancellare il dolore per la tragedia che ha vissuto.

A Melzo vive una sopravvissuta al genocidio in Ruanda

Dopo quasi trent’anni sente ancora dolore per le botte che le hanno dato, ricorda i volti dei cari che hanno ucciso davanti ai suoi occhi, dei bambini appena nati che venivano assassinati da Hutu che li lanciavano contro i muri, ancora macchiati di sangue.

Honorine Mujyambereè è una Tutsi sopravvissuta ai cento giorni del genocidio che si è consumato in Ruanda da aprile a giugno 1994. Oggi vive a Melzo e racconta la sua storia perché non si rischi di dimenticare.

Ero una bambina quando ho cominciato a subire gli effetti del razzismo sulla mia pelle, e non capivo perché. Nella mia famiglia non mi hanno insegnato l’odio. Detestavo il corso di educazione civica, nella quale ci insegnavano che i Tutsi erano “cattivi, responsabili di ogni male del Paese”. E nelle ore successive nessuno dei compagni ci rivolgeva la parola

Già si respirava la segregazione razziale, ma il peggio è venuto dopo quel maledetto 6 aprile 1994, quando l’aereo dell’allora presidente Juvénal Habyarimana, al potere con un governo dittatoriale dal 1973, venne abbattuto da un missile. La donna non aveva ancora compiuto 13 anni, quando iniziò il genocidio che vide la fine solo a luglio.

Odio disumano

In pochi mesi circa un milione di persone fu sterminato dall’odio che dilagava in Ruanda.

Picchiavano a morte uomini e bambini, violentavano le donne perché dicevano di voler “provare le Tutsi” e poi le uccidevano Qualcuna è rimasta in vita e si è trovata a portare in grembo il figlio dell’assassino che le aveva massacrato la famiglia.

Ti picchiavano dalla testa ai piedi. Quando si trovavano davanti gli uomini infierivano sulle parti intime. Alcuni miei parenti sono morti urinando sangue.

Anche i cari di Honorine non sfuggirono a furia e percosse, e neppure lei stessa. Il suo papà morì per i colpi assestatigli, la mamma di dolore qualche anno dopo la fine del massacro, zii e tutti i cugini durante il genocidio. Le atrocità non hanno risparmiato nemmeno il fratellino della donna, che aveva solo nove anni.

Un nuovo inizio

Anche quando si sopravvive a un trauma del genere, risulta impossibile dimenticare. E lei non lo ha fatto, ma non si è neppure arresa di fronte al dolore indicibile.

Mujyambereè ha rielaborato il trauma anni dopo, nel 2001, quando per la prima volta ha iniziato a piangere. Poi è arrivata in Italia nel 2008, ha ricostruito la sua vita, pur continuando ad avere gli incubi.

L’impegno della donna per tenere viva la memoria non si ferma alle parole, fa parte anche di un’associazione, «Ibuka Italia memoria e giustizia», che opera per la causa.

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